Fino al secolo scorso – ma in parte ancora oggi, specialmente in alcuni contesti -, in Carnia essere molto, se non estremamente, laboriosi era la conditio sine qua non per essere considerati delle brave persone. E l’Ors incarnava esattamente lo stereotipo del carnico che si realizza soltanto per mezzo del lavoro, dell’essere produttivo. Ricordo, come già detto in un altro post, che un saluto tipico era non “cemût stastu?” (come stai) ma “ce lavoristu?” A cosa stai lavorando?
E l’Ors aveva per il lavoro una vera e propria ossessione, tanto da disprezzare profondamente quanti secondo lui erano “puce fadîs”, scansafatiche. L’ossessione per il lavoro era accompagnata da quella per l’accumulo di ricchezze e soprattutto terreni e bestiame.
Il suo sogno, inseguito per tutta la vita e quasi completamente realizzato, era quello di riuscire a possedere la totalità dei boschi e pascoli di Pani, il suo regno. Ossessionato dall’accumulo, era di conseguenza particolarmente attento a non sprecare nulla, a non spendere se non per spese assolutamente necessarie. Arrivava persino al punto di vietare alle donne di lavare spesso gli abiti o impiegare il tempo pulendo la casa. Tempo e risorse spesi inutilmente, secondo lui, che potevano essere usati per lavori e faccende più utili.
Viveva inoltre una religiosità del tutto personale, che non si omologava ai dettami della Bibbia o del Vangelo: andava al rosario serale ma usava la chiesetta di Pani come deposito per i suoi attrezzi da lavoro e addirittura per le patate.
Come l’animale del quale portava il nome, viveva in simbiosi con la natura e in modo quasi autosufficiente: mangiava ciò che produceva, vestiva con la lana delle sue pecore e i pellami ricavati dal suo bestiame, calzava per lo più dalminis di legno o scarpets cuciti dalle sue donne. Tra le le poche concessioni al rigore autartico c’erano il tabacco per l’iconica pipa che spuntava, quasi come una propaggine naturale del suo volto, tra le labbra e la barba ipertrofica e le scatolette di sardine di cui era ghiotto, beni che comprava quando scendeva a valle.
Ma come un fauno, l’Ors era molto incline ai piaceri della carne, e questa sua propensione, che si dice venne portata all’eccesso fino a diventare l’amante della propria figlia, sarà la causa della separazione dalla seconda moglie, del marchio infamante dell’incesto su di lui e la figlia Maria, ma anche di una fascinazione magnetica e probabilmente anche morbosa che suscitava su molte valligiane. Certo, spesso erano la fame e il bisogno a spingerle fino in Pani in cerca di sostentamento, e Toni non mancava di rimandarle a casa con un agnello appena sgozzato, un coniglio, delle uova e anche qualche soldo. In cambio, spesso, di un fugace momento in sua compagnia nelle stalle, che le donne gli concedevano senza molta ritrosia.
Zanella era burbero, se non addirittura dispotico, con tutti, con una solo eccezione: la sua primogenita Maria, nata dal primo matrimonio, e unica dei quattro figli ad essere riconosciuta e a portare il suo cognome. La figlia, arrivata in Pani già adulta, dopo aver vissuto altrove – si dice a Milano – conquistò subito l’affetto, la stima e il rispetto del padre, e fu la causa dell’allontanamento della casa dell’Ors della seconda moglie e dei figli da lei avuti.
La voce di popolo sostiene che con la figlia vivesse un rapporto incestuoso, vissuto tuttavia in modo estremamente naturale da entrambi.
Maria viveva serena in Pani con Toni, ma amava talvolta recarsi a Venezia, dove soggiornava all’Hotel Danieli, e dove comprava gioielli e vestiti nelle più esclusive gioiellerie e boutique della città. Suo padre le concedeva questi giorni “da regina” senza porre limite alle sue spese, e lei faceva ritorno nel loro regno sull’altopiano portando con sé meno denaro ma più gioielli e abiti eleganti, che avrebbe riposto nella sua camera come un tesoro, senza indossarli se non durante queste piccole vacanze cittadine.
Insieme sopravvissero ai cosacchi, lì giunti perché avevano saputo che Toni ospitava i partigiani nei suoi casolari, fornendo loro anche il necessario alla sussistenza; nascosero e sfamarono i partigiani ribelli Arko Mirko e Katia, che proprio in Pani trovarono la morte per fucilazione, e, a guerra finita, nella nevosa notte del 05 marzo 1955, morirono anch’essi sotto i colpi di fucile di Romano Lorenzini “Romanin da sclopa”, un giovane valligiano accecato dall’odio per l’Ors e salito fino in Pani con il solo scopo di porre fine all’esistenza di quello strano uomo che sarebbe rimasto per sempre una leggenda della Carnia.
«Il Patriarca della Carnia e la figlia uccisi nella notte a colpi di fucile. L’incontro di due sciatori con uno sconosciuto armato di doppietta, le due scariche a distanza ravvicinata. Quale il movente dell’assassinio? L’Ors di Pani era noto in tutta la zona per la sua ricchezza e per le sue stranezze» |
(Messaggero Veneto, 8 marzo 1955) |
Se volete approfondire, sul sito del comune di Raveo trovate la tesi di Ilaria Toscano sull’Ors di Pani à www.comune.raveo.ud.it/media/files/030089/attachment/L_Ors_di_Pani_-_tra_mito_e_realta.pdf
Segnalo anche il celebre racconto di CARNIER P.A., L’Ors di Pani, in Vento di Carnia, Udine, tipografia G.B. Doretti, 1957, pp. 77-138
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