Carnia, terra di confine. E anche questa pagina a volte sconfina in altri luoghi, veri o metaforici

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Alla scoperta delle opere del Vallo Alpino – prima parte

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Quella sera di mercoledì 18 luglio 1973 il caldo era insopportabile. Le goccioline di sudore scivolavano dalla fronte del giovane militare e finivano tra il colletto della camicia e la pelle, facendo appiccicare il tessuto al corpo.
Eppure doveva resistere con addosso gli scarponi, i pantaloni e la camicia dell’uniforme: era un militare di carriera e non poteva certo arrotolarsi le maniche sugli avambracci e mostrarsi così debole da non sopportare un po’ di caldo.
Valter lesse il biglietto con il servizio affidatogli quel giorno: ispezionare con la sua squadra una delle opere e l’osservatorio dello sbarramento di Cavazzo Carnico.
Un giorno sì e uno no tra i suoi compiti c’era quello di controllare uno dei bunker del Vallo Alpino costruiti per volontà di Mussolini negli anni ’30 a difesa dei confini italiani soprattutto dalla Germania nazista e del suo progetto espansionista. Ma Mussolini temeva anche la Jugoslavia, la Svizzera e la Francia, così fece realizzare una fitta rete di bunker,  gallerie e osservatori lungo tutto il nord Italia.
Poi scoppiò la Seconda Guerra Mondiale, e il Vallo Alpino non fu mai ultimato. Il progetto venne però recuperato e ultimato negli anni Cinquanta, sotto l’egida della Nato, quando, temendo un’invasione delle truppe del Patto di Varsavia, alcune di queste opere vennero fornite di elettricità, deumidificatori, telefoni, e soprattutto, armi e munizioni, e riutilizzate. Era cambiato il nemico, ma non la minaccia.

un bunker oggi. Si nota il deumidificatore

la parete esterna del bunker era curva ed imitava la roccia per nascondere l’entrata

deumidificatore

 

La Carnia, così vicina al confine, era disseminata di opere e molte erano attive. Le verdi colline di Cavazzo, alcune rivolte verso il lago più grande della Regione, erano tutte traforate da gallerie fortificate, in gran parte riutilizzate, e a Valter era affidato il compito di controllare quella zona.
Quel giorno gli era stato affidato un bunker di dimensioni ridotte, posizionato quasi sul greto del Tagliamento. Da lì, si poteva controllare la polveriera di Tolmezzo e un eventuale attacco da sud.
Arrivati con il camion nella campagna di Cavazzo, Valter e i tre soldati che lo accompagnavano osservarono allontanarsi le ultime donne che tornavano a casa dai campi. L’area attorno al bunker era ovviamente interdetta ai civili, e la struttura in cemento armato era dissimulata, come tutte le altre, alla vista dei passanti.


Le pareti, nascoste dalla vegetazione, imitavano alla perfezione pietra e tufo, elevandosi dal terreno erboso come un affioramento roccioso naturale. L’ingresso principale dell’opera era protetto da una parete arcuata, con le cavità porose e le sporgenze tipiche del tufo, nelle quali erano cresciute edere, semprevivi ed altre piante.

Rete che emerge dalla parete di cemento armato

Ma niente era come appariva: spesse e robuste porte in ferro erano celate all’interno di quelle strutture in cemento armato, e portavano a gallerie segrete con lunghi corridoi, mense, dormitori, servizi igienici, infermerie e soprattutto, postazioni da dove sparare con mitragliatrici, torrette di carroarmato, mortai… indossando maschere antigas.

sui muri c’erano le varie indicazioni


Tutto questo mentre la vita dei civili, lì fuori, continuava tranquilla e ignara dell’incombente pericolo che gli alpini di arresto, o arrosto, come erano stati ribattezzati, avrebbero dovuto cercare di rallentare.
Rallentare, non fermare. Se ci fosse stata un’invasione da parte delle truppe sovietiche, infatti, i ragazzi all’interno delle opere avrebbero potuto sopravvivere solo poche ore, anche se le indicazioni riportavano dai dieci giorni alle due settimane, tenuto conto delle scorte di viveri, acqua e maschere antigas. Ma tale previsione di sopravvivenza era troppo ottimistica, fuori dalla realtà. I fanti e gli alpini di arresto avrebbero cercato di difendere la loro patria finchè non fossero morti per mano nemica e purtroppo, in caso di attacco sarebbe inevitabilmente accaduto. I militari dentro i bunker, se l’invasione avesse avuto luogo, sarebbero stati niente più di carne da macello, o arrosto, appunto.
Il Monte Festa, che a sud-est di Cavazzo dominava tutte le vallate circostanti, dal Canal del Ferro verso la conca tolmezzina e poi giù, verso la piana di Gemona e oltre, era presidiato dagli americani, che sulla sua cima avevano una base stabile da anni.

panorami dal Monte Festa


E più in là, verso Pontebba, sul Monte Scinauz, accessibile – esclusivamente per l’esercito – con un’ardita funivia o in elicottero, si nascondeva il “radar fantasma” così potente che si dice riuscisse a intercettare aerei nemici fino al Baltico e alla catena degli Urali.  Un civile che fosse stato scoperto a provare ad avventurarsi verso questa base segreta (ma anche dentro a uno qualunque dei bunker) sarebbe stato immediatamente fermato e segnalato. Anche il solo fotografare era proibito, e numerosi cartelli disseminati nei pressi delle opere imponevano tali divieti. –> foto
Ma torniamo a quella sera di mezza estate 1973. Valter non era un soldato qualunque, aveva ricevuto il NOS (Nulla Osta Segretezza), e doveva controllare lo sbarramento di Cavazzo.
Lasciò che le donne si allontanassero con le loro barelle di legno, simbolo di Cavazzo, cariche di fieno, attrezzi da lavoro e verdure, e assieme ai commilitoni iniziò il giro di perlustrazione esterno.

donne nella campagna di Cavazzo intente a raccogliere pannocchie di granoturco. Anni ’70

Il bunker non era grande, generalmente in mezz’ora avrebbero controllato che luci, porte, impianto di deumidificazione e telefoni fossero a posto.

porte pesanti di sommergibili chiudevano le stanze e i corridoi


Ma quella non era destinata a essere una sera uguale a tutte le altre.
Recentemento, il Ministero della Difesa aveva inoltrato l’avviso di massima allerta per un possibile imminente attacco, e c’era anche la minaccia di sabotaggio all’oleodotto transalpino SIOT, che passava (e passa) non molto distante dal muro di recinzione della caserma Cantore, ma anche attraverso la campagna di Cavazzo, dove erano attive diverse opere, e i controlli si erano intensificati.
Dopo il bunker avrebbero dovuto controllare anche il box sul greto del Tagliamento verso Pioverno, che celava al suo interno una torretta di carroarmato e munizioni sufficienti a mitragliare per qualche ora.

Perlustrazioni recenti

Quando aprì il pesante portone di ferro, i capelli sulla nuca di Valter si rizzarono nonostante il caldo. Il cuore perse prima un battito e poi ne recuperò cento, mille, in un solo minuto. La bocca gli si fece secca e cercò di deglutire per sconfiggere quella sensazione. Le luci all’interno del bunker erano accese e questo poteva significare solo una cosa. Attacco.
L’errore umano non era contemplato. Nessuna distrazione, nessuna dimenticanza era ammessa. Ogni militare destinato a controllare i bunker firmava un registro con nome, cognome, data e ora di ingresso e uscita. Tutto era perfetto, tutto veniva registrato.
Valter diede l’allarme ai suoi soldati, che al segnale caricarono il fucile, pronti all’attacco. Con lo stomaco stretto in una morsa di ferro come la cortina che dava il nome al periodo che stava vivendo, il comandante si fece coraggio e avanzò nell’ingresso, spingendo il portone di sommergibile con un calcio.
Nessuno si fece avanti. Nessun rumore se non il ronzio del motore del deumidifcatore sempre acceso. Non mi fido, era il motto che aveva accompagnato la costruzione di tutte le gallerie del Vallo del Littorio, e nemmeno Valter si fidava. Lo avevano addestrato bene, e sapeva che il nemico peggiore è quello che sa essere invisibile e silenzioso.
Una dopo l’altra, Valter perlustrò tutte le stanze del bunker, tutti i corridoi, le feritoie, i ripostigli.

…. continua

 

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robertocavasin

vallo_alpino

la_guerra_fredda

  1. Giorgio Artini

    Racconto e foto veramente interessanti .complimenti per cio’ che avete fatto ,attendo con fiducia la seconda parte.

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